Piano formazione docenti: le buone intenzioni e le criticità

Un contributo di Anna Maria Bellesia per il centro Studi della Gilda degli insegnanti


14 Ottobre 2016 | di Anna Maria Bellesia

Piano formazione docenti: le buone intenzioni e le criticità Il piano nazionale per la formazione dei docenti 2016-2019 è un corposo documento di 88 pagine, da leggere con attenzione per capire quali sono le intenzioni, gli aspetti poco chiari e le criticità.
 
LE BUONE INTENZIONI
Il piano offre una visione di sistema, organica e coordinata per un triennio, indica e spiega le priorità, prospetta un modello organizzativo nel quale i diversi attori hanno ruoli definiti e interagenti secondo una regia complessiva. È accompagnato da adeguati finanziamenti, che ammontano a complessivi 325milioni di euro per il 2016-2019, mettendo insieme tutte le varie fonti di finanziamento, a cui si aggiunge la carta del docente per le spese sostenute individualmente.
Il piano si propone l’obiettivo di “armonizzare le azioni formative” su tre livelli: quello nazionale, con la definizione degli indirizzi strategici e delle regole di funzionamento, quello delle istituzioni scolastiche, nell’ottica del miglioramento stabilito nell’ambito della propria autonomia, e quello del singolo docente, finalizzato allo sviluppo professionale continuo.
Viene ribadito che la formazione è un dovere professionale oltre che un diritto contrattuale, e che rientra negli adempimenti connessi alla funzione docente.
Non manca il riferimento all’Europa e alla necessità di sviluppo del sistema educativo italiano rispetto agli standard internazionali. Pertanto la formazione dei docenti lungo tutto l’arco della carriera acquisisce una importanza strategica.
La collaborazione fra i vari soggetti viene incoraggiata, sia livello di scuola che territoriale, per la costruzione di filiere formative e di reti cooperative per lo sviluppo di azioni coordinate.
La formazione permanente dovrà poi avere una ricaduta riscontrabile sul piano pratico. Il Miur sta lavorando all’adozione di “standard professionali”, in modo che ogni docente possa documentare in un sistema online la propria“storia formativa e professionale”, costruendo il proprio portfolio professionale. Il modello di riferimento è il bilancio delle competenze, un format adottato lo scorso anno per la formazione dei neoassunti.
 
I MOTIVI PRATICI: A COSA SERVE IL PORTFOLIO?
Il portfolio professionale non sarà certamente un documento snello. Oltre al curriculum e alle competenze professionali, dovrà documentare le unità formative acquisite con grande quantità di particolari, che troviamo dettagliati a pagina 20: tipologia dei percorsi frequentati, modalità, contenuti, risorse, report narrativo, presentazione, autovalutazione, partecipazione al progetto formativo della scuola.
Ma a cosa serve davvero questo portfolio professionale? Permette all’amministrazione di avere tutte le informazioni relative al percorso professionale dei docenti, mettendo “a disposizione dei dirigenti scolastici il curriculum come supporto alla scelta nella chiamata per competenze per l’assegnazione dell’incarico triennale”. Insomma, compilare il portfolio serve alla chiamata diretta, per far funzionare il nuovo meccanismo introdotto con la Buona Scuola e assolve alla funzione amministrativa che una volta avevano le graduatorie con i punteggi.
 
COME È STRUTTURATA L’UNITÀ FORMATIVA PER I DOCENTI?
Le azioni formative per gli insegnanti di ogni istituto sono inserite nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa, in coerenza con le scelte del Collegio Docenti che lo elabora sulla base degli indirizzi del dirigente scolastico.
Le attività saranno articolate in Unità Formative che devono indicare la struttura di massima del percorso formativo, nel quale sono comprese non solo le attività in presenza, ma tutti quei momenti che contribuiscono allo sviluppo delle competenze professionali (formazione a distanza, ricerca/azione, lavoro in rete, approfondimento personale e collegiale, documentazione, progettazione).
Per la definizione delle Unità Formative, il Ministero suggerisce di fare riferimento a standard esistenti, come il sistema dei crediti formativi universitari e professionali.
Per fare un esempio, un credito universitario corrisponde a 25 ore di lavoro comprensive di lezioni, esercitazioni, studio a casa. Per i professionisti, in genere vale la corrispondenza di 1 ora=1 credito, con l’obbligo di 60 crediti in un triennio, acquisibili con modalità liberamente scelte (attività in presenza, online, o di tipo informale).
Per i docenti, si evidenzia la necessità di garantire a livello di scuola almeno una Unità Formativa per ogni anno scolastico, diversamente modulabile nel triennio.
Tuttavia il Ministero non impone alcuna quantificazione oraria obbligatoria, probabilmente demandata al prossimo Contratto collettivo. Anzi, viene ribadito che “è importante qualificare, prima che quantificare, l’impegno del docente considerando non solo l’attività in presenza, ma tutti quei momenti che contribuiscono allo sviluppo delle competenze professionali”.
L’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
Le scuole riconoscono come Unità Formative la partecipazione a iniziative promosse direttamente dalla scuola, dalle reti di scuole, dall’Amministrazione e quelle liberamente scelte dai docenti, purché coerenti con il Piano di formazione deliberato dal Collegio Docenti.
L’Unità Formativa viene riconosciuta e acquisita tenendo conto delle diverse attività svolte, purché documentabili all’interno del quadro progettuale della scuola e nel portfolio personale del docente.
 
QUALI SONO LE CRITICITÀ?
La carriera non c’è. Nel piano si continua a parlare di carriera e di sviluppo professionale, ma in Italia la carriera del docente è piatta dall’inizio alla fine. Se saranno aboliti anche gli scatti stipendiali per anzianità, non ci sarà alcuna progressione né di status né economica.
Ma come funzionano le cose in Europa? La strategia per migliorare i sistemi educativi punta indubbiamente su una formazione continua, strutturale e sostenuta finanziariamente. Lo sviluppo professionale lungo tutto l’arco della carriera comprende opportunità di apprendimento formali, informali e non formali. L’obbligatorietà vige soltanto in una parte degli stati membri, e l’impegno non supera i 3-5 giorni all’anno. In altra buona parte degli stati, la formazione è opzionale. Generalmente è incentivata, perché collegata alla possibilità di ottenere una promozione. Dunque, sviluppo continuo e progressione di carriera sono indissolubilmente legati. In Italia no, questo è il maggiore punto debole.
E la formazione pregressa? Un docente che ha 30 anni di lavoro alle spalle certamente avrà partecipato ad attività di formazione. Non è una tabula rasa sulla quale scrivere “unità formative” come se si partisse da zero. Come riporta il Miur, hanno svolto attività di formazione il 75-76% dei docenti italiani. La percentuale è inferiore rispetto ad altri 10 paesi Ocse in cui è stata condotta l’indagine Talis 2013, ma riguarda pur sempre i 3/4 del corpo docente. Bisognerebbe tenerne conto.
Va riconosciuto l’apprendimento formale, informale e non formale, con modalità di partecipazione aperte e flessibili, come è previsto in tutti gli ordini professionali. Su questo aspetto il Miur è troppo vago e generico, così nelle scuole vedremo di tutto.
Serve la contrattazione. La legge 107/2015 stabilisce che la formazione in servizio dei docenti è obbligatoria, e quindi un dovere. Ma diritti e obblighi relativi al rapporto di lavoro sono determinati contrattualmente. Lo stabilisce il D.lvo 165/2001 aggiornato alla riforma Brunetta. La contrattazione è prevista dalla legge, non è un privilegio da ancien regime. Il Contratto di lavoro vigente riconosce l’importanza di aggiornamento e formazione quale diritto/dovere intrinseco alla funzione docente. I relativi impegni fanno parte delle “attività funzionali all’insegnamento” che possono essere individuali e collegiali. Il capitolo della formazione dovrà però essere riscritto nel prossimo Contratto adeguandolo alla situazione attuale.
Il rischio della burocratizzazione è concreto. Basta leggere le 88 pagine del piano. Si teme che tutto finisca col riempire montagne di moduli, con nuovi carichi di adempimenti formali in aggiunta alla mole a cui nessuno ormai riesce più a stare dietro. E pensare che la lotta alla burocrazia era stata annunciata, anche questa, come la madre di tutte le battaglie!
Più obblighi e stipendi congelati: è il refrain più ripetuto nei social. Certamente questo aspetto e le altre situazioni di disagio professionale conseguenti alle riforme frenano molto la disponibilità di partecipazione costruttiva. Anche il timore che si apra un giro lucrativo per i formatori è stato palesato da molti. Era andata esattamente così quando anni fa la formazione obbligatoria serviva per passare di gradone.
Ci voleva una Buona Comunicazione! Invece, la ministra Giannini è riuscita a vanificare lo sforzo di innovazione e investimento del piano suscitando un’ondata di reazioni indignate quando ha detto che tutti i 750mila docenti dovranno tornare sui banchi come scolaretti. Chi ha superato un concorso selettivo o ha anni di lavoro alle spalle deve essere trattato col rispetto dovuto ad un professionista.
 
 


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