Le lettere persiane della genesi RSU. Di Montesquieu

Hanno un bel dire che la scuola non è un’azienda, ma queste Rappresentanze Sindacali Unitarie richiamano, già dal nome, un moderno falansterio, cioè una fabbrica, con tutti i suoi lavoratori, delegati, ecc.


07 Gennaio 2015 | di Stefano Battilana

Le lettere persiane della genesi RSU. Di Montesquieu Fra le varie cose che contesto al mio amico Hegel, c’è questa sua incomprensibile fissazione che la realtà debba essere razionale: pensate allora le risate che ci facciamo noi amici filosofi quando per sbugiardarlo tiriamo fuori il mondo della scuola, dove tutto l’esistente appare a noi assolutamente irrazionale. Allora la sua aprioristica tesi crolla (e con lui anche Leibniz si dispera: la scuola non appare certamente il migliore dei mondi possibili ...) e un argomento principe di confutazione è senza dubbio la nascita delle RSU scolastiche, così come ho appreso dalle varie mie incursioni sul pianeta Scuola.
 
Per iniziare, come avviene per tutte le soperchierie scolastiche, le attuali RSU hanno una genesi agostana (Accordo Quadro del 7 agosto 1998): quando l’utente si crogiola al sole, il burocrate (solo allora?) lavora e, tornati a settembre, i docenti si ritrovano infinocchiati.
 
Intanto hanno un bel dire che la scuola non è un’azienda, ma queste Rappresentanze Sindacali Unitarie richiamano, già dal nome, un moderno falansterio, cioè una fabbrica, con tutti i suoi lavoratori, delegati, ecc., senza contare poi che qualcuno ancora si ostina a chiamare RSA, cioè “aziendale”, il rappresentante di un sindacato che non ha avuto eletti, ma il quale ha comunque diritto di partecipare alla contrattazione, in quanto firmatario del Contratto Nazionale. In realtà questa figura nella scuola si chiamerebbe TAS (anche in questo caso il nome è assai infelice): un “Terminale” (speriamo sempre sanissimo ...) Associativo Sindacale, designabile solo dalle Organizzazioni Sindacali Rappresentative provinciali.
 
Ma torniamo a quel caldo inizio di agosto del 1998: era necessario stabilire il “pondus” di ogni sigla sindacale che si sedesse al tavolo contrattuale con l’Aran e quindi fu escogitato un sistema che garantisse in ogni caso la sopravvivenza delle sigle maggiori: metà della “rappresentatività” dal cosiddetto “dato associativo” (cioè gli iscritti a quel tale sindacato sul totale degli iscritti ai sindacati) e metà dai voti RSU.
 
Inizialmente si ritenne opportuno fare la conta dei voti su base provinciale, ma questo avrebbe consentito una rappresentatività troppo fedele al reale, rendendo agevole per ogni sindacato, anche per il meno insediato sul territorio, trovare candidati provinciali, che magari potessero coagulare anche voti di protesta: troppo facile! Bisognava invece fin dall’inizio rimpicciolire i collegi elettorali provinciali, anche di 100 e più volte, creando un collegio elettorale in ogni istituzione scolastica, così che fosse quasi impossibile per i piccoli e gli autonomi trovare un candidato o più in ogni scuola. Quindi, nonostante le liste provinciali fossero già state pubblicate e la campagna elettorale avviata, i sindacati maggiori imposero uno stop e la contrattazione fu resa d’istituto, in ossequio alla neonata “Autonomia” con i suoi relativi Dirigenti, con tutte le conseguenze sul contratto fotocopia (quando va bene ...) di cui vi ho già parlato in altra sede. Si espropriava così il Collegio dei docenti delle prerogative passate, per mantenere la supremazia del pansindacalismo, con tutti suoi interessi confliggenti, che qui trovavano una sintesi “unitaria”, a scapito, ad esempio, di chi rappresenta una sola categoria del comparto: un capzioso criterio che premia la capillarità a scapito della rappresentanza.
 
Fu così che arrivammo fino al 2000 (in quel caso non c’era fretta di contrattare in ogni istituto ...) e iniziò questa scellerata stagione per cui ogni triennio bisogna eleggere un piccolo esercito di quasi 30.000 mini-sindacalisti in tutta la nazione, che saranno poi intenti a fare le stesse medesime cose in scuole diverse.
 
Così quella che dovrebbe essere la fotografia del reale consenso dei sindacati fra il personale scolastico diviene un sistema elettorale finalizzato a una conta nazionale, che tuttavia si svolge in ogni condominio dell’intero paese, dovendosi eleggere in ognuno uno staff di almeno 3 consiglieri del condominio stesso: siccome non tutti i sindacati sono così ramificati sul territorio come i vecchi uffici postali è chiaro che in questo modo le strutture grosse si perpetuano e quelle minori faticano a farsi strada. Senza contare che il ruolo di RSU è poco ambito dall’insegnante tipico, generalmente individualista e attaccato al suo lavoro d’aula, il cui motto è “Lasciatemi insegnare!”, e quindi spesso preferisce lasciarsi “rappresentare” da altri lavoratori, che contratteranno il Fondo anche per lui.
 
E’ un interessante paradosso, che piacerebbe anche al mio amico Epimenide: ci vorrebbero RSU normali, stimate, oneste, combattive e serie, ma chi ha queste qualità spesso proprio per queste sue caratteristiche non intende far parte della RSU, dove teme di contaminarsi, scendere a compromessi o passare gran tempo a perdere tempo: un vero e proprio sofistico “comma 22” della contrattazione.
 
E che l’importante sia la maggior gloria del sindacato, lo chiarisce il fatto che se qualcuno volesse votare un collega solo per i propri meriti, potrà farlo esclusivamente se questo si sarà messo sotto l’ombrello di una sigla sindacale: un meccanismo assolutamente “sindacatocratico”.
 
Eppure, anche nella prossima tornata marzolina, si perpetuerà questo faticoso rito, ora esteso per l’elettorato passivo anche a tutto il personale precario: come a dire, “Càndidati, bellezza!”, ciò che conta è fare la lista per i voti e non la stabilità triennale del tuo mandato, tanto l’anno successivo te ne sarai certamente andato da un’altra parte e verranno i “missi dominici” provinciali a contrattare al tuo posto, con buona pace del rispetto della cinghia di trasmissione fra la base e gli eletti. Amen!
 
 


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