"Io, docente in un liceo pubblico, volontario in una scuola primaria familiare"

Fulvio Iachelini* racconta di un'esperienza interessante dal punto di vista umano e professionale come volontario nella scuola familiare di Pejo


27 Dicembre 2012 | di Flavio Tabanelli

"Io, docente in un liceo pubblico, volontario in una scuola primaria  familiare"
D: Si parla tanto di radicamento delle scuole nel territorio, ma il paese più alto del Trentino, in cui, ad esempio, opera l'ultimo caseificio turnario a gestione plurifamigliare, è privato d'autorità della sua scuola elementare. Si parla tanto di autonomia e tale scelta sa piuttosto di imposizione. Che cosa pensi di questa sorta di schizofrenia, motivata dalla scarsità di fondi?
R: La scuola di paese deve chiudere? Agli ordini ! la si chiuda, purtroppo non saranno le proteste di queste famiglie a cambiare il corso degli eventi, ma ciò non vieta a chi lo desideri di esercitare un diritto sancito dalla Costituzione, qual è quello dell'istruzione parentale dei propri figli. Dopotutto questo progetto ha avuto modo di prendere vita grazie ad una civile forma di resistenza che queste famiglie hanno saputo opporre ad una decisione che da esse è stata considerata ingiusta: il Nein ricevuto dall'autorità ha dato vita all'esperimento.
Scuola Pejo Viva è la Scuola che non c'è: un gruppo di genitori decide di ricorrere all'istruzione parentale (che di per sè non è una scelta collettiva ma una scelta che riguarda la singola famiglia); questo gruppo di genitori decide di organizzare l'istruzione dei figli creando un laboratorio di apprendimento e condividendo con 'collega genitore' la responsabilità della formazione del proprio figlio; lo zio di uno degli alunni offre gli ambienti per le lezioni; simultaneamente, ma indipendentemente, un gruppo di volontari provenienti dalle realtà geografiche più disparate decide di mettere a disposizione le proprie energie per la didattica: intorno a questo progetto, spontaneamente e gratuitamente, è nata una comunità di persone che hanno deciso di rendersi disponibili per la realizzazione di un progetto; tuttavia questa comunità di persone ha scelto di non dare ufficialità alla propria esistenza, perchè ha preferito essere che apparire.


D: I tuoi allievi di Peio non sono gli adolescenti coi quali sei solito lavorare. A parte questa ovvia differenza, che cambiamenti hai notato, dovuti alla particolare condizione della scuola paterna?
R: Paradossalmente, benchè l'attività che svolgo nei due contesti sia quella dell'insegnante e l'intensità con la quale cerco di trasmettere la matematica sia la stessa, non riesco a confrontare le due realtà, le considero due grandezze incommensurabili: ho dato la mia disponibilità a collaborare all'esperimento posto in essere da queste famiglie di Pejo, forte del mio mestiere di insegnante, per poi scoprire che le competenze che dovevo attivare distavano anniluce da quelle che impiego nel mio lavoro: grazie a questa esperienza ho capito che quello del maestro è uno dei mestieri più difficili e pregni di responsabilità che esistano. Lo studente di liceo è uno studente motivato, che ha già operato una scelta, paziente di fronte a forme di didattica terribilmente cattedratiche, diligente e rispettoso come si confà ad un adolescente già strutturato e quasi adulto; il bambino di Pejo è un cucciolo che cambia di giorno in giorno, che ha bisogno di essere stimolato e motivato, che non smette di 'torturarti' finchè non ha capito cosa deve fare, finchè non ha appagato la sua assetata curiosità. Amo operare in entrambi i contesti, consapevole del fatto che diversissimi sono i due ruoli che interpreto.
Ho percepito nella sua evidenza, la differenza tra la scuola dell'obbligo e la scuola che uno studente ha scelto in funzione del più o meno chiaro progetto di vita che ha stabilito per sè; mi sono sganciato dal mio ruolo di insegnante di matematica che vede lo studente sotto la lente della propria disciplina, cogliendo l'alunno in età evolutiva sotto un profilo globale; in sintesi, ho capito che l'insegnamento della matematica è tanto più efficace quanto più è chiaro all'insegnante lo status evolutivo della personalità dello studente destinatario del messaggio educativo.


D: Se consideriamo la pedagogia una scienza, allora i centocinquant'anni di scuola postunitaria sono un grande esperimento di massa, come gli ultimi cinquanta della 'rivoluzione' che introdusse il paradigma insiemistico nell'insegnamento della matematica (la cosiddetta 'New Math'), il dogma maltusiano nell'insegnamento della geografia, l'apertura alla controcultura, ecc. La crisi in cui viviamo richiederebbe una valutazione di questi esperimenti, con la mente aperta ad ammetterne, se ne fosse il caso, il fallimento. Proviamo, infatti, a ipotizzare che il disastro scolastico non dipenda soltanto dalla penuria di soldi, ma anche da errate impostazioni metodologiche e curricolari, cioè dai contenuti e da tempi e modi di presentarli. La libertà goduta nella scuola paterna di Pejo ti ha permesso di sperimentare metodi alternativi, che possano fungere da apripista, nel caso di necessarie revisioni del curriculum nazionale?
R: Non sono d'accordo sul concetto di 'disastro scolastico': dopotutto, dal confronto con i risultati di altre nazioni, scopriamo che la scuola primaria italiana si difende piuttosto bene e, per tenere accesa la speranza, è anche opportuno segnalare che in Italia vi sono molte realtà che danno ottimi risultati scolastici in tutti gli ordini di istruzione. Mi trovi invece d'accordo quando parli di una sorta disorientamento derivante da una selvaggia sovrapposizione di sperimentazioni e metodologie che hanno investito la Scuola; spesso anzichè avere il coraggio di operare una scelta, si è proceduto per giustapposizione: per la paura di abbandonare il paradigma didattico-metodologico precedente, si è deciso di aggiungerne uno nuovo, con il risultato che, teoria dopo teoria, progetto dopo progetto, la Scuola è diventato un contenitore onnivoro che, anzichè contrastare lo schizofrenico 'mordi e fuggi' culturale del quale la società sta diventando vittima, sta rischiando di assecondarlo diventandone una complice. Ci si lamenta spesso del fatto che i nostri studenti non riflettono, che non sono speculativi, che non rielaborano, io mi chiedo quando i nostri studenti potrebbero dedicarsi a queste formative e nobili attività, vista la frenetica e incessante giornata 'lavorativa' che abbiamo cucito loro addosso.
L'esperienza di Pejo ha fatto di necessità virtù: una revisione del curricolo si è resa necessaria, dal momento che il tempo scuola era ridotto rispetto a quello ordinario; tuttavia posso affermare che, nonostante una riduzione dei contenuti sia stata resa obbligatoria, la qualità del risultato può essere considerata ottima, in vista di una sperata permanenza dei risultati dell'apprendimento: la cura e la pazienza con le quali sono stati somministrati gli argomenti, l'attenzione nell'assecondare i ritmi di apprendimento del fanciullo, i tempi dedicati alla riflessione, al ragionare insieme ed alla rielaborazione dei concetti fanno sperare che questi bambini siano stati i destinatari di una efficace esperienza di apprendimento.


D: Che cosa hai potuto sperimentare delle novità che i corsi di aggiornamento ci inviterebbero ad attuare, ma che avverse condizioni ci impediscono?
R: Annovero questa esperienza tra le più professionalizzanti del mio curriculum, anche se non credo che mi verrà rilasciato un attestato : - ))
In questo momento sto pensando a me in qualità di insegnante di matematica e fisica in un liceo: il fatto di assistere al processo durante il quale il bambino passa da esperienze tattili-corporee al concetto di numero, di operazione o di forma geometrica, per me, ha significato impadronirsi di un segmento dello sviluppo cognitivo del fanciullo al quale non mi sarei mai potuto avvicinare nel corso della mia attività lavorativa: ho scoperto la gioia di vedere un bambino illuminarsi dopo che aveva afferrato un concetto, dopo che si era impadronito di un meccanismo di calcolo o dopo che aveva colto la bellezza di un ragionamento, ho avuto la fortuna di poter sperimentare l'assenza di competizione tra i ragazzi e la solidarietà che si instaura tra i fanciulli nel momento dell'apprendimento, l'imparare per l'imparare e non l'imparare per il voto.
Ho avuto conferma del fatto che questo 'corso di aggiornamento a Pejo' mi aveva giovato quando, verso la fine dell'anno scolastico, i miei studenti di liceo mi hanno detto che mi trovavano diverso dagli anni passati; ho chiesto loro in che cosa consistesse questa mia diversità ed essi mi hanno risposto che ero più chiaro nelle spiegazioni, che ero più incline ad agganciarmi ai loro saperi pregressi e che sembrava che andassi a ripescare concetti e parole che appartenevano al loro passato matematico, dando loro il senso della continuità di ciò che avevano appreso: il più bel complimento che io abbia ricevuto in tredici anni di insegnamento.


D: Gli autori delle ultime 'riforme' sembrano aver ignorato i problemi più grossi, per occuparsi minuziosamente di mille aspetti secondari. Quali osservazioni hai potuto fare, di cui sembrano incapaci questi 'pedagoghi di regime', che procedono per fughe in avanti?
R: A volte mi capita di pensare che certa pedagogia si sia scordata dell'età del fanciullo di cui si occupa; pare quasi che il bambino destinatario della ricerca pedagogica sia sempre lo stesso e che quel bambino sia cresciuto assieme allo sviluppo delle teorie pedagogiche, assorbendole tutte, una dopo l'altra; ma quel bambino non è lo stesso; ha quell'età, questo è vero, ma non è lo stesso.


D: Il decreto sui disturbi dell'apprendimento definisce questi ultimi malamente, ma fissa minuziosamente i corrispondenti doveri degli insegnanti. Alcuni imputano l'epidemia di tali disturbi alla fretta con cui vengono portati avanti programmi vastissimi, non tagliati sulle esigenze elementari dei bambini. Se ciò fosse vero, una scuola pubblica che si desse i tempi della scuola paterna potrebbe rispondere meglio a questo problema? Pensiamo alle famose aste, tanto utili alla calligrafia e forse al consolidamento di atteggiamenti interiori...
R: Ho notato, con crescente stupore, che quelli che erano dei gruppi classe sono diventati spontaneamente dei gruppi di livello, di solidarietà o di apprendimento collaborativo: bambini di terza che, dopo aver svolto il lavoro assegnato, partecipavano con interesse al lavoro dei bambini di quarta, apportando contributi notevoli all'attività in corso e dimostrandosi già pronti per il passo successivo, bambini di quinta che si prendevano cura dei bambini di prima, seguendoli nell'apprendimento delle rudimentali tecniche di calcolo, bambini di pari età che si accertavano che il compagno di classe avesse chiarezza sulla risoluzione del compito assegnato. La parola che forse si adatta meglio a tutte queste forme di collaborazione è responsabilità: i bambini di Pejo sono stati abituati a pensare fin dal primo giorno di scuola che essi formavano un gruppo che aveva il compito di crescere imparando, nessuna scusa è stata loro concessa, nessuno è stato autorizzato a pensare di essere migliore o peggiore del compagno perchè tutti insieme si doveva crescere.
Alla luce dell'esperimento di Pejo, non posso esimermi dal pensare che alcuni comportamenti che vengono definiti disturbi possano essere considerati dei diversi gradi di maturazione del fanciullo rispetto all'obiettivo che l'adulto pretende che l'allievo raggiunga in quel momento storico della sua evoluzione; naturalmente non mi sto riferendo a conclamati deficit dell'apprendimento, ma a diversi atteggiamenti dei fanciulli rispetto all'oggetto dell'apprendimento. Spesso, a parità di età dei bambini, mi è capitato di osservare comportamenti molto diversi: dal bambino che coglieva immediatamente il concetto a quello che si dimostrava apparentemente refrattario alla novità della materia da apprendere; in questo secondo caso a nulla sono valse forme di accanimento terapeutico, bastava aspettare che il bambino fosse pronto, bastava attendere che lo sviluppo del fanciullo fosse adatto a quel passaggio logico-evolutivo-cognitivo. Ecco il bello di questa esperienza: ho visto dei cervelli svilupparsi, ho assistito al formarsi di un'intelligenza e ho cercato di assecondare, senza forzature, la dinamica della sua maturazione.


D: Si può dire che, nel rapporto con gli insegnanti, spesso i genitori remano contro, benchè a parole si dimostrino preoccupati unicamente del bene del figlio. Nell'esperienza della scuola paterna, come hai visto cambiare il rapporto con i genitori?
R: Purtroppo, e lo dico con dispiacere, questa è la generazione dei 'figli perfetti', dei ragazzi programmati per essere i migliori, destinati al successo anche se non lo vogliono ottenere, destinati a primeggiare perchè i genitori lo hanno desiderato fortemente. A volte, durante i colloqui con le famiglie, mi capita di trovarmi di fronte a studenti il cui grado di consapevolezza rispetto alle proprie possibilità e ai propri sogni è ben più elevato di quello dei genitori che, pur di non far mancare nulla ai loro ragazzi, si sono talmente immedesimati nei figli da pretendere di poter pensare per loro: se solo potessero, studierebbero per loro. Giusto, si tratta di amore genitoriale (dopotutto chi non ama il proprio figlio? Chi non farebbe di tutto per la sua felicita?), che però si palesa in forma di iperprotettività: mi chiedo quanto questo possa giovare all'autonomia di crescita e di sviluppo dei ragazzi. Paradossalmente anche la bocciatura, di cui nella scuola attuale non è più lecito parlare perchè sintomatica di mancata realizzazione degli obiettivi formativi da parte dell'istituzione, viene accettata con maturità dai ragazzi che quasi sempre ammettono le loro responsabilità, mentre viene rifiutata dai genitori che la considerano una sconfitta personale, non comprendendo che spesso quella bocciatura è il risultato di un percorso scelto per lo studente e non scelto dallo studente.
Anche in questo caso, l'esperienza della scuola parentale di Pejo ha rappresentato una sorta di rivoluzione copernicana in ambito educativo: l'insegnante, durante l'attività con i ragazzi, era sempre affiancato da un genitore e con quel genitore formava una coppia che mandava un unico messaggio educativo: l'istruzione non poteva scaricare la responsabilità sulla famiglia, nè la famiglia avrebbe potuto prendersela con la scuola, dal momento che scuola e famiglia, in quella realtà, hanno avuto la fortuna di coesistere e co-agire: un fronte unico destinato alla crescita umana e culturale dei bambini.


D: Pensi che i genitori e i volontari come te abbiano ottenuto, perlomeno in alcuni ambiti, dei risultati superiori a quelli che mediamente si raggiungono con gli allievi delle scuole pubbliche e paritarie?
R: L'aggettivo 'superiori' non mi piace, Flavio, perchè fa pensare ad una sfida tra la scuola parentale e la scuola pubblica, sfida che, come dici tu nella premessa, non c'è mai stata: lo dimostra il fatto che i volontari della scuola parentale provengono quasi tutti dalla scuola pubblica e lo dimostra il fatto che qualcuno in quei di Pejo spera ancora nella riapertura della scuola di paese. Il carattere sperimentale e unico di questa esperienza ha invece fatto sì che tutte le componenti attive (bambini, genitori e insegnanti) fossero sempre concentrate sull'obiettivo principe, ovvero la formazione dei fanciulli. Persino il temutissimo esame finale, vissuto come spauracchio per tutto l'anno scolastico, ha smesso di fare paura qualche giorno prima di essere affrontato, perchè i protagonisti dell'avventura, indipendentemente dall'esito, sentivano di avere dato il meglio per la realizzazione dell'impresa e sapevano, indipendentemente dal giudizio esterno, quali sacrifici e impegno avevano permesso all'anno scolastico di giungere al termine. Per non risultare elusivo nella risposta alla tua domanda, mi limiterò a segnalare un aspetto che ha reso unica la scuola di Pejo, ovvero la didattica decisamente individualizzata: favorite dal basso numero di iscritti e stimolate dallo spirito di apprendimento collaborativo e di corresponsabilità, le lezioni di Pejo si sono sempre concluse con un alto grado di consapevolezza da parte di tutte le componenti attive durante la lezione: i volontari avevano chiarezza su ciò che erano riusciti a trasmettere ad ogni singolo bambino, i bambini distinguevano perfettamente ciò che risultava loro chiaro da ciò che avrebbe dovuto essere ripreso la volta successiva, i genitori erano consapevoli di ciò che il fanciullo aveva o non aveva appreso e quindi erano preparati per il loro successivo ruolo di supervisori nel lavoro domestico assegnato ai bambini.

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*Fulvio Iachelini è un docente di Matematica di un liceo della Provincia di Trento che ha accettato di insegnare, come volontario, nella scuola familiare di Pejo


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